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Età del Ferro

(Clicca sui simboli nella mappa per maggior dettagli. In rosso gli scavi archeologici; in blu i rinvenimenti archeologici di superficie)

In seguito alla scomparsa della cultura terramaricola agli inizi del XII sec. a.C., la pianura parmense appare completamente disabitata per quasi cinque secoli, almeno fino al VII sec. a.C. In generale, l’Emilia occidentale non appare interessata dalla grande facies villanoviana che caratterizza, al contrario, tutta l’Emilia centro-orientale e la Romagna. Leuniche testimonianze relative alla prima età del Ferro (circa IX-VIII sec. a.C.) sono costituite da semplici rinvenimenti sporadici ottocenteschi, che nulla rivelano sulle modalità del popolamento: un nucleo di manufatti  rinvenuti a  – i frammenti di 6 cilindri fittili e un peso di pietra con un contrassegno a croce di probabile valore  numerale –  e un’ascia in bronzo del “tipo a cannone” rinvenuta ad  di Pellegrino Parmense.

Le testimonianze archeologiche del Parmense relative all’età del Ferro sono tutte inquadrabili in un arco di tempo circoscritto, tra VII e V sec. a.C., in linea con i tempi della progressiva espansione etrusca verso occidente, che tra la fine del IX e il VII sec. a.C. partendo da Felsina raggiunge progres-sivamente le rive dei fiumi Panaro, Secchia ed Enza.

Dal punto di vista culturale, gli unici ritrovamenti propriamente etruschi sono costituiti dal rinvenimento di un ripostiglio a di , da una fibula ritrovata recentemente durante scavi in e da una sepoltura a .

Il ripostiglio di Quingento, comunque non databile con precisione, fu scoperto casualmente nel 1871 negli strati superiori della terramara ed era costituito originariamente da 8 lingotti di rame ferroso, dei quali sei recano il signum (ramo secco), la cui produzione si colloca a partire dal secondo quarto del VI sec. a.C.

Recentemente, a sud di in Via Saragat,è stata rinvenuta una fibula bronzea “a drago con margherite laterali”, tipica del cosiddetto “Villanoviano IV B2” di Bologna, che potrebbe documentare la presenza di un etrusco di Felsina attorno al600 a.C. e quindi essere indizio di relazioni più strutturate con la metropoli etrusco-padana[1].

A questi rinvenimenti è forse possibile aggiungere la sepoltura di Fraore, scoperta casualmente nel 1864 da L. Pigorini, che apparteneva con ogni probabilità ad una defunta di rango molto elevato residente in uno dei nuclei venuti alla luce nelle adiacenze di Fraore. Tuttavia, nonostante sia ascrivibile alla cultura etrusco-padana della seconda metà del V sec. a.C. il complesso dei materiali presenta significative consonanze anche con il mondo insubre golasecchiano. Ad esempio, la cista in bronzo a cordoni con manici fissi di produzione felsinea è qui un accessorio del servizio simposiaco, come avveniva nell’area interessata dalla “Cultura di Golasecca”, mentre nelle necropoli felsinee avevano tutte funzioni di vaso-ossario. Anche la parure unisce gioielli di produzione etrusco-padana ad altri che hanno maggiore diffusione nella “Cultura di Golasecca” come le coppie di fibule in oro “ad arco serpeggiante” e disco fermapieghe, e la fibula in argento “tipo Fraore”.

Questa contaminazione tra cultura etrusca ed altre componenti culturali, assente nell’area bolognese-romagnola, appare, al contrario, tipica del parmense e in generale dell’Emilia occidentale, già all’inizio del VI sec. a.C., tanto da far supporre che gli Etruschi costituissero di certo il gruppo dominante, ma all’interno di una popolazione etnicamente eterogenea. Infatti, proprio la posizione quasi di “frontiera” di queste area occidentali ha fatto si che questi territori, sebbene profondamente etruschizzati, fossero esposti a molteplici rapporti ed influenze.

Le ricerche archeologiche hanno permesso di determinare che nella prima metà del VI sec. a.C. si diffusero in Emilia occidentale, tra il Modenese (Gaggio) e il Piacentino (Pontenure), piccoli gruppi di popolamento che si caratterizzavano per il rituale funerario, la cui pertinenza etnica è stata oggetto di un dibattito non ancora risolto. Essi presentevano piccoli sepolcreti con sepolture a carattere misto, prevalentemente ad incinerazione entro dolia, ma anche ad inumazione. Questa facies, che era stata denominata “S.Ilario-Remedello”, dopo una iniziale attribuzione ai Liguri è attualmente attribuita ad una prima fase della penetrazione etrusca. E’ quindi probabile che la pianura emiliana fosse sotto il completo controllo etrusco almeno dal VI sec. a.C., anche se alcuni elementi fanno ritenere che il quadro fosse composito: alcuni componenti caratteristici del gruppo, infatti, – come ganci di cintura guadrangolari, armille, pendagli, fibule – rivelano perlomeno contatti frequenti con l’ambiente ligure, oltre la presenza di nominali di ambiente settentrionale nelle iscrizioni.

Un contributo importante alla caratterizzazione di questa facies di “S.Ilario-Remedello” nel parmense è stato reso dallo scavo in località , condotto nel 2002 in un’area a nord dell’autostrada A1 di fronte alle Fiere di Parma. Qui, in prossimità di un antico canale, sono state riportate alla luce porzioni di capanne lignee sottoscavate assieme a strutture accessorie, tra le quali numerosi clay-pits e alcunepiccole fornaci. In prossimità di queste strutture si trovava un sepolcreto composto da una decina di tombe ad incinerazione in dolia, parzialmente danneggiato in epoca romana, quando molte fosse erano state svuotate e riutilizzate come fosse per rifiuti. Le tombe integre sono circa la metà: comune a tutte è la sepoltura entro grandi dolia cinerari alti circa60 cm e generalmente decorati da prese rettangolari; all’interno, insieme ai resti del rogo funebre, erano conservati anche numerosi oggetti di corredo. Il rituale funerario e i materiali di corredo mostrano evidenti contatti in particolare con l’area atestina, quella golasecchiana, l’Emilia occidentale (Case Nuove di Siccomonte presso Fidenza) e il reggiano (necropoli di S. Ilario-Fornaci)[2].

Come si diceva, il popolamento nella pianura parmense mostra una rinnovata vitalità a partire dal tardo VII sec. a.C, soprattutto grazie ai predominanti, anche se non esclusivi, apporti etruschi. Tra VII e V sec. a.C. il territorio appare interamente popolato, con una preferenza per la bassa pianura. I ritrovamenti descrivono il quadro di un popolamento composto da insediamenti di piccole dimensioni e piuttosto ravvicinati tra loro, analogamente a quanto si può osservare nel limitrofo territorio di Sant’Ilario d’Enza/Tannetum per il VI-V sec. a.C.

Quingento di San Prospero, lungola Via Emilia Est, il rinvenimento nel sito dell’antica terramara di uno spillone in bronzo del “tipo con capocchia a noduli serrati” lascia supporre una frequentazione del territorio forse già dal tardo VII sec. a.C.[3] Inoltre, negli immediati dintorni della terramara, sono stati segnalati, a più riprese, rinvenimenti di superficie collocabili, almeno in un caso, nel VI sec. a.C.[4] Anche a nord della Via Emilia, sono noti rinvenimenti di superficie cronologicamente coevi, che sono stati messi in connessione con l’insediamento etrusco segnalato da L. Pigorini nel 1871[5].  È importante rimarcare la vicinanza del sito al percorso della futura via Emilia, che, come si è visto, costituiva un asse di una certa rilevanza almeno dalle fasi più antiche dell’età del Bronzo.

Sempre lungo la Via Emilia, ma ad ovest di Parma in località Fraore, nel 1873 era stato individuato dal Pigorini un villaggio (“parecchi fondi di abitazioni”) dove erano presenti materiali che richiamano le forme vascolari attestate sia Chiavari, che nella Lombardia golasecchiana fra tardo VII e VI sec. a.C. Sono particolarmente interessanti due frammenti di anfora etrusca utilizzata per il trasporto del vino, un’ansa della quale era stata marcata a crudo con una X, il più antico contrassegno finora restituito nel territorio parmense[6]. La vitalità di questo settore è testimoniata anche dai numerosi rinvenimenti di superficie effettuati più recentemente nei dintorni di Fraore, in particolare tra le Scuole e il cavo Vallazza, nelle aree già insediate dai gruppi terramaricoli. Poco più ad est, inoltre, in località San Pancrazio, tra il 2006 e il 2009 è stata riportata alla luce una vasta area produttiva costituita danumerose fornaci per la produzione di bucchero, forse in connessione proprio con l’insediamento[7].

In località , a nord-ovest di Parma, è stato recentemente rinvenuto un villaggio di capanne che si inseriva in una maglia di canali per il drenaggio delle acque di superficie, ed era dotato di unafornace nella quale si produceva vasellame in bucchero e di una necropoli[8].

Sempre a nord-est di Parma, in località Beneceto, è stato riportato in luce un insediamento inquadrabile nell’ambito del VI sec. a.C. A causa della scarsa profondità di giacitura dei depositi, circa 30/40 cm dal piano di campagna, le strutture erano gravemente compromesse dall’impostazione nella stessa area di un successivo insediamento romano. Tuttavia, vennero identificate alcune porzioni sottoscavate di strutture insediative e alcune fosse di scarico. Tra i materiali recuperati si ricordano frammenti di dolia, olle, scodelle e alcuni frammenti di bucchero[9]. Poco più ad est è stata individuata una capanna rettangolare delimitata da una serie di buche di palo, forse riconducibile ad un’occupazione volta allo sfruttamento agricolo dell’area[10].

In località Roncopascolo, ad ovest di Parma, uno scavo ha consentito la scoperta di una capanna e di due fosse di scarico. I materiali raccolti, buccheri di produzione locale, altre ceramiche fini, ceramiche da cucina e grandi contenitori per derrate, ne orientano la cronologia al pieno VI sec. a.C.[11]

Nel VI sec. a.C. è collocabile anche la capanna individuata in località , a sud di Parma, lungo Strada Traversetolo[12]. A questa fase, seppur con estrema prudenza, sono verosimilmente attribuibili anche alcuni rinvenimenti di cronologia incerta: le fornaci scavate a Gaione[13] e in Via Guidorossi[14], e le strutture individuate nei pressi di Via Righini[15].

I dati provenienti dal territorio parmense sembrano, quindi, portare un’ulteriore conferma al tentativo etrusco di riorganizzare sistematicamente la regione padana a partire dalla seconda metà del VI sec. a.C., con la rifondazione di Felsina e la creazione di altre città quali Spina, Marzabotto e Mantova. I dati disponibili, seppur frutto di scavi d’emergenza non sistematici, permettono di ricostruire, per questa fase, un popolamento contraddistinto da insediamenti di piccole o medie dimensioni, associati talvolta a necropoli e ad aree produttive. Questo tipo di popolamento era certamente funzionale ad una riorganizzazione del territorio, da lungo tempo poco occupato, e ad uno sfruttamento agricolo intensivo. Le sequenze vegetazionali segnano una nuova culminazione delle piante di prati/pascoli e un declino ormai definitivo delle piante forestali naturali, anzitutto querce, olmi, carpini, noccioli, frassini ecc. L’età del Ferro è segnata nella nostra regione da un’esplosione della coltivazione delle piante arboree o arbustive di valore alimentare, prima di tutto castagno, poi noce, vite domestica (Vitis vinifera. subsp. sativa), in particolare nei diagrammi di alta pianura e collina la curva pollinica di quest’ultimo gruppo assume valori rilevanti (fino al 30-35% sulla somma pollinica totale).

Tuttavia, l’invasione dei Boi agli inizi del IV sec. a.C. segna una nuova fase di spopolamento delle aree di pianura, forse dovuta ad un minore sfruttamento agricolo del territorio, con la cesura, in certi casi forse anche violenta come dimostrano le tracce d’incendio nell’abitato fidentino di Siccomonte, di quel diffuso popolamento che aveva caratterizzato i secoli centrali dell’età del Ferro.

A partire dal IV sec. a.C. l’invasione e l’occupazione celtica determinarono una contrazione del popolamento di tradizione etrusca ed una scomparsa o forte ridimensionamento di alcuni dei loro centri. È possibile intravedere una preponderanza dei Liguri sull’Appennino, un territorio svuotatosi dalle comunità etrusche, e un popolamento boico/boico-etrusco in pianura. Le testimonianze archeologiche per questa fase sono assenti e molto probabilmente rispecchiano la situazione di un territorio di nuovo abbandonato, o comunque scarsamente popolato. È possibile supporre che Parma, poiché occupava una posizione strategica a controllo di un guado e delle vallate di Enza, Taro-Ceno e Parma-Baganza, avesse una o più comunità celtiche insediate nell’area o nell’immediato territorio, ma non esistono testimonianze archeologiche che possano confermarlo.

La descrizione di Livio sulla deduzione della colonia Parma nel183 a.C. “in agro qui proxime Boiorum ante Tuscorum fuerat” ci informa che si trattava di un territorio in passato interessato da un popolamento etrusco e boico, ma non presuppone necessariamente l’esistenza di un centro urbano nel luogo scelto per la fondazione della colonia. Effettivamente, per il momento i dati archeologici a disposizione non forniscono indizi certi dell’esistenza di un vero e proprio insediamento preromano nel luogo dove sorgerà Parma.

Le evidenze archeologiche rinvenute nel centro storico della città, infatti, non rimandano ad un assetto antecedente al III-II sec. a.C. e sono per lo più riconducibili alla sfera del sacro. In questo senso sono state cautamente interpretate le tracce di frequentazione tardolateniane (III-II sec. a.C.) riscoperte nei depositi giacenti al di sotto il Capitolium romano rinvenuto in Piazza Garibaldi, che potrebbe, quindi, essere sovrapposto ad una più antica area cultuale[16]. Interessante in questo senso anche la scoperta nel2008 in Viale Tanara, ai margini settentrionali del centro storico di Parma, dei i resti di un possibile santuario di Cerere attribuito al periodo della colonizzazione, III sec. a.C., e identificabile come santuario dai numerosi oggetti di culto, statuette d’argilla e frammenti di ceramica a scopo rituale[17].

Anche da un punto di vista toponomastico la questione dell’origine del nome Parma, che ha valore tanto di idronimo quanto di poleonimo, trova divisi gli studiosi. Da un alto coloro che riconducono il latino parma al ligure o celtico, ma senza probanti elementi di raffronto, dall’altro coloro che chiamano in causa l’etrusco, in particolare l’affinità con il gentilizio maschile Parmnie e al corrispondente femminile Parmni, formati sull’antroponimo Parme con l’aggiunta dei suffissi di tipo patronimico –na e -ie. Tuttavia, c’è chi non esclude che il nome latino parma, che indicava lo scudo rotondo in dotazione a cavalleria e a fanteria leggera, non fosse di origine preromana, ma venisse utilizzato in veste augurale, ossia collegato alla funzione protettiva a cui era destinata la colonia, che sorgeva in posizione strategica per il controllo del guado lungola Via Emilia e allo sbocco in pianura della vallate appenniniche, all’epoca popolate ancora dalle bellicose tribù liguri.

[1] Aree di scavo nn. 826, 827; sito n. 826/1 dell’Atlante Archeologico del Comune di Parma. [2] Aree di scavo nn. 787, 788, 791; sito n. 787/1, 788/1, 791/1. [3] Area di segnalazione n. 417. [4] Aree di segnalazione nn. 417, 678. [5] Aree di segnalazione nn. 6123, 745. [6] Area di scavo 867; sito n. 867/1. [7] Area di scavo n. 432; sito n. 432/1. [8] Area di scavo 858; sito n. 858/1. [9] Area di scavo n. 807; sito n. 807/2. [10] Area di scavo 790; sito n. 790/1. [11] Area di scavo n. 355; sito n. 355/1. [12] Area di scavo n. 712; sito n. 712/1. [13] Area di scavo 394; sito n. 394/1. [14] Area di scavo n. 336; sito n. 336/2. [15] Area di scavo n. 846; sito n. 846/1. [16] Marini Calvani 2007, pp. 319-320. [17] Area di scavo n. 853; sito n. 825/1: Vida 2008; Vitali 2009, p. 178.

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Età del Ferro – Bibliografia

Aes signatum. Un aspetto dell’economia nell’Emilia preromana (Catalogo della mostra, Reggio Emilia 1988), Reggio Emilia 1988. G. Bandelli, Parma durantela Repubblica. Dallafondazione della colonia a Cesare, in Storia di Parma, a cura di D. Vera, Parma 2009, pp. 181-218. G. Bigliardi, Atlante archeologico del Comune di Parma, 2011 (leggi on-line) G. Bottazzi, Archeologia territoriale e …

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